Per ricordare sempre la strada che abbiamo percorso e quella da percorrere.
Sosteniamo la ricerca, per cambiare e combattere
le Malattie Mitocondriali.

Insieme possiamo farcela.

Mi chiamo Nino, sono nato nella Sicilia degli anni 60.
La mia era una famiglia numerosa e fin da ragazzino ho dovuto lavorare per aiutarla e riuscire in qualche modo a colmare l’assenza di mio padre, che spesso stava male e non poteva provvedere, in modo adeguato, al sostentamento della famiglia.
La mia adolescenza è stata molto dura, mio padre venne a mancare a soli 45 anni a causa di questa malattia che trasmise a noi figli.
Fu allora che mio fratello maggiore decise di trasferirsi con l’intera famiglia a Milano.
A soli 16 anni, persi una gamba durante un incidente stradale e questo aggravò il mio stato d’animo.
Poco dopo incontrai Giovanna, una bella ragazza siciliana come me, a cui chiesi presto di sposarmi. Insieme cominciammo a costruire e pianificare la nostra vita dedicandoci completamente al lavoro per dare basi solide ai figli che sarebbero venuti.
Ma a soli 26 anni, nel momento più intenso della mia vita, qualcosa cambiò, arrivarono i primi sintomi di stanchezza muscolare, le palpebre cominciarono ad abbassarsi e lo stesso accadde ai miei fratelli. Ci recammo all’Ospedale Carlo Besta di Milano, dove esercitava il professore Massimo Zeviani, un grande luminare nella ricerca delle malattie mitocondriali.
Si tratta di una malattia rara che colpisce solo un ristretto numero di persone appartenenti alla stessa famiglia, di cui si sapeva molto poco e per questo non veniva studiata adeguatamente.
Dopo un primo momento di sconforto io e Giovanna decidemmo di non abbatterci e di combattere fino all’ultimo.
Malgrado le difficoltà e gli ostacoli incontrati in questo cammino, non ci siamo mai arresi e abbiamo allargato la famiglia mettendo al mondo due splendidi ragazzi, per i quali lottiamo ancora più strenuamente confidando nella ricerca fino al punto di creare questa Onlus, che ha lo scopo di finanziare i ricercatori impegnati a studiare la miopatia mitocondriale.
Come ho affrontato questa malattia? Ho imparato con il tempo a conviverci, nonostante mi renda difficile anche solo la più semplice delle attività quotidiane, come una gita fuori porta con i miei figli, una passeggiata con mia moglie o semplicemente interagire con altre persone.
Che cosa desidero? Una vita serena accanto alla mia famiglia, il veder crescere i nipoti che verranno, invecchiare accanto a mia moglie, cose semplici che ognuno si augura, ma che per me e per chi ha la mia stessa patologia sono nelle mani della ricerca.”
Nino desidera una vita serena accanto alla sua famiglia che lo accompagna e supporta in questa lotta continua.

Sosteniamo Nino attraverso la ricerca.

Io sono Sebastiana, o più semplicemente Seba.
Dopo la morte di mio padre mi sono trasferita dalla Sicilia a Milano insieme ai miei fratelli.
L’inizio è stato duro, ma sono sempre stata una donna forte e allegra e ben presto ho trovato un lavoro e la mia indipendenza economica.
La mia vita scorreva serena come quella di una qualsiasi giovane ragazza che spera di trovare un giorno l’amore e mettere su famiglia.
All’età di 28 anni, pero’, mi venne diagnosticata la malattia e la mia vita cambiò completamente, facendomi diventare fragile ed insicura fino a rinunciare ad avere una mia famiglia e dei figli.
I miei fratelli, le mie sorelle, e mia cognata mi hanno sempre aiutata e sostenuta non facendomi mai sentire sola e tutti insieme affrontiamo questa maledetta malattia.
Il mio punto di forza e il mio unico riferimento è la mia famiglia, in particolare l’affetto dei miei nipoti che sono la mia ragione di vita e che desidero poter accompagnare nella loro crescita.”

Sosteniamo Sebastiana attraverso la ricerca.

Anche io, come i miei fratelli, mi sono trasferita a Milano dalla Sicilia.
Ero giovane, solare e innamorata della vita, ma allo stesso tempo forte ed autoritaria, la colonna portante della mia famiglia.
All’età di 25 anni mi sono sposata con il mio grande amore e dal nostro matrimonio sono nate tre meravigliose figlie che hanno cambiato completamente la mia esistenza: Sonia, Erika e Noemi .
Avevo solo 28 anni quando mi venne diagnosticata la malattia e questo trasformò totalmente la mia vita, spezzò il felice equilibrio che avevo finalmente raggiunto.
Con il venire meno delle forze, cresce l’apprensione nei confronti delle mie figlie e mi sorprendo ogni giorno a spiarle con attenzione nel timore di ravvisare in loro i primi sintomi della malattia, pregando Dio affinchè almeno loro vengano risparmiate.
Oggi, all’età di 62 anni sono nonna di due bellissime bambine con cui desidero poter giocare liberamente, senza sentirmi intrappolata nel mio corpo che me lo impedisce.
Il mio desiderio più grande è poter vedere le mie nipotine crescere e le mie figlie stare bene e questa speranza me la può dare solo la ricerca.”

Sosteniamo Antonella attraverso la ricerca.

Ho saputo di avere la miopatia mitocondriale 7 anni fa circa, all’età di 32/33 anni.
Inizialmente non ho avuto modo di pensarci più di tanto, visto che i sintomi non si erano ancora manifestati a pieno, quindi un po’ da incosciente andavo avanti senza preoccuparmi troppo.
Passati un po’ di anni, ho iniziato a notare la difficoltà nel tenere gli occhi aperti, anche durante l’arco di tutta la giornata.
Da quel momento ho preso atto effettivamente della malattia e devo ammettere che non è stato facile.
La difficoltà di interagire, relazionarmi con persone, tenere un discorso guardandole negli occhi o semplicemente passeggiare con il sole di fronte, rende tutto più complicato. Questo mi provoca imbarazzo e disagio.
Fortunatamente l’aprile scorso ho fatto l’operazione ptosi palpebrale e dopo qualche mese ho iniziato a vedere i primi risultati.
Ora riesco a tenere aperti gli occhi più a lungo e ho riacquistato un po’ più di fiducia in me stessa, cosa che per qualche anno mi è mancata.
Oltre le palpebre e un po’ di stanchezza in più nella vita quotidiana, per il momento non riscontro altri sintomi, ma vedo la difficoltà che ogni giorno mia madre deve affrontare, essendo lei ad uno stadio più avanzato, accorgendomi che un semplicissimo e banale gesto come, pettinarsi o solo lavarsi il viso, diventa difficoltoso.
Noto il suo disagio, nonostante io la sproni ogni giorno.
Sono e voglio essere serena e fiduciosa nel pensare che, in un futuro prossimo, la ricerca porterà ottimi risultati e che il farmaco non rimarrà solo in fase sperimentale.
Fortunatamente ho accanto a me persone meravigliose, la mia grande famiglia, gli amici e i colleghi che cercano sempre di alleggerire, per quanto possibile, la mia situazione, senza farmi sentire a disagio con sguardi o frasi fatte, semplicemente vivendomi come mi hanno sempre vissuta.
Ringrazio con tutta me stessa mia zia Giovanna, che non ha mai smesso di credere in un futuro migliore per noi e la nostra neurologa Dr.ssa Lamperti insieme a tutta la sua equipe che si impegnano a darci la possibilità di vivere un futuro migliore.”

Sosteniamo Erika attraverso la ricerca.

Avevo solo 24 anni quando conobbi mia suocera, una bella e giovane donna.
Notai, però, i suoi occhi semichiusi dietro le spesse lenti degli occhiali che portava e l’andatura rigida e lenta.
Me la ricordo sempre seduta vicino al tavolo della cucina con l’eterna sigaretta tra le mani.
Quando chiesi al mio futuro marito cosa avesse lui rispose che si trattava solo di una ptosi palpebrale, che aveva poco appetito e che spesso si sentiva stanca per cui il suo medico di famiglia la curava con la carnitina b12.
Quando incontrai gli zii di mio marito notai che la maggior parte di loro aveva gli stessi problemi, preoccupata perche’ aspettavo un bambino, cominciai ad osservarlo sempre piu’ attentamente, sospettando di una patologia ereditaria, ma quando decisi di chiederglielo lui nego’ tutti i miei sospetti.
Mio marito Aveva solo 26 anni era sportivo, giocava a tennis ,andava a cavallo ed era pieno di vita, quindi mi rassicurai, ma solo per qualche anno.
Un giorno, infatti, mentre cercavo qualcosa nel suo comodino, trovai il ritaglio di un articolo che parlava di un luminare di neurologia del Policlinico Gemelli che studiava le patologie mitocondriali.
Costrinsi mio marito a spiegarmi perche’ conservasse quell’articolo, a quel punto, messo alle strette, mi confesso’ che era stato visitato da quel dottore il quale aveva scoperto che la patologia di cui soffriva la sua famiglia era una forma di miopatia mitocondriale, una malattia ereditaria rara per cui non esistevano cure.
Mia suocera mori’ qualche anno dopo a soli 57 anni.
Mio marito decise di non curarsi, diventando ogni giorno più ostile verso di me fino a quando finimmo per separarci.
Io osservavo mia figlia crescere e non volevo convincermi che anche le palpebre dei suoi bellissimi occhi blu cominciassero pian piano ad abbassarsi.
Quando aveva 18 anni, il mio ex marito l’aveva fatta sottoporre all’esame del DNA ed era risultato positivo, ma non me lo aveva mai detto, anzi affermava che era tutto a posto.
L’ho saputo solo nel 2000, dopo che ero appena uscita da un tumore.
Nel 2004 il mio ex marito mori’ a 57 anni per un ictus. E fu allora che convinsi mia figlia di sottoporsi a visite di controllo e a contattare il cugino in cura al Gemelli.
Mi ascoltò e tramite lui trovo’ una parte della famiglia che non conosceva: i suoi cugini che vivevano a Milano e in Sicilia e finalmente non era piu’ sola.
Da quel momento tutti gli anni si ritrovano al San Matteo di Pavia per effettuare i vari controlli.
Sono sempre in contatto, si vogliono bene e tutti insieme sono decisi a combattere questa malattia di cui, per ora, si possono tenere sotto controllo solamente i sintomi, nella speranza che si trovi finalmente una cura che possa garantire loro una vita degna di questo nome.
Come dice una pubblicità in TV “la ricerca è grande” ed io posso sperare che mio nipote di 16 anni possa non dover affrontare questo doloroso percorso.

Sosteniamo Francesca attraverso la ricerca.

Era l’anno 2004 quando mio padre morì.
Ricordo molto bene quel momento, poiché io, in quel periodo, abitavo con lui insieme al mio bimbo di due anni.
Ricordo che si stava facendo la barba prima di andare in ufficio, ero in cucina e sentii un tonfo improvviso. Cercai di aprire la porta del bagno, ma c’era qualcosa che mi impediva di farlo: era il corpo di mio padre.
Chiamai mia madre ed il 118§; mamma arrivò mentre stavano portando via mio padre semi-paralizzato, seduto sopra una sedia.
Ci recammo in ospedale dove lo tennero in astanteria; non parlava, ma capiva e tutto l’emisfero sinistro era paralizzato.
Rimase vivo per 48 ore, in quelle condizioni, poi si spense.
Nella compostezza della morte, vestito con uno dei suoi bellissimi abiti sartoriali, sembrava un ragazzo affascinante come era sempre stato nella vita.
Fu allora la prima volta che venni in contatto con la malattia.
In quel tempo non avevo alcuna sintomatologia, avevo 30 anni e un figlio di due, solo le palpebre leggermente abbassate.
Mio padre sapeva che io avevo la sua stessa patologia, ma non mi aveva mai incoraggiato a farmi visitare, anzi, sapendo che non vi erano cure, evitava lui stesso di sottoporsi a visite di controllo.
Fu allora che intervenne mia madre che mi spronò a contattare mio cugino che era in cura al Gemelli e al san Matteo di Pavia dove erano in cura anche altri miei cugini che non conoscevo.
Fissammo una visita al San Matteo e partimmo io e la mamma.
Qui incontrai una parte della mia famiglia che non avevo mai visto e formammo una squadra.
Ci sottoponiamo ogni anno a controlli con un’equipe eccellente di medici e ricercatori, auto-motivandoci per combattere questa malattia nella speranza che un giorno possa esserci una cura.
Come vivo la mia malattia? Male, ma cerco di affrontarla conducendo una vita il più possibile normale.
Sono diventata ipocondriaca, non ho equilibrio, mi stanco facilmente, ma ho sempre mia madre al mio fianco a supportarmi e il mio stupendo ragazzo, per il quale devo combattere nella speranza che non debba affrontare anche lui il mio destino.”

Sosteniamo Francesca attraverso la ricerca.